C’è il Marocco degli aromi di tè alla menta e delle spezie del tajine, dell’odore polveroso ma accogliente dei tappeti e del profumo stuzzicante del pane cotto sotto la sabbia del deserto del Sahara. E poi c’è il Marocco fiorito, quello che odora di rose, quello che se ci vai una volta ti porti dietro la malia del profumo fino a casa. Siamo nella Valle delle Rose, ai piedi dell’Alto Atlante, nel sud del Paese. In questo labirinto di valli e gole c’è un fiume, l’Asif M’Goun, che irriga un fazzoletto di terra scaldato dal sole dove germoglia la rosa damascena. Una vera e propria vie en rose, bella e funzionale.

Grazie alle siepi di rose che delimitano i campi, i ruminanti vengono tenuti lontani dai raccolti. L’essenza viene venduta ai mastri profumieri francesi, ma solo dopo aver seguito un’attenta procedura: le rose si raccolgono solo all’alba perché il sole ne diminuisce la resa olfattiva, e i boccioli e i petali vengono fatti essiccare sui tetti di terra delle abitazioni. E infine, la Valle delle Rose è tutte le volte in grado di nutrire gli occhi di bellezza, grazie agli inimitabili mosaici di argilla rosa e ocra. In tutti i piccoli villaggi il tempo sembra fermo: i lavori dei campi, l’assenza di meccanizzazione, i costumi tradizionali, le abitazioni di mattoni crudi. La vita scorre al ritmo delle stagioni. Non ci sono orologi, c’è solo un tempo colorato e il desiderio di restare completamente immersi nel suo profumo.

 

Ad aprire le porte della Valle delle Rose ci pensa la guida Alì Daimin, che invita a camminare da queste parti proprio nei giorni di Pasqua. Già, questo «è un viaggio speciale – spiega – anche perché questa è casa mia». Alì ha trascorso anni di vita nomade andando «alla ricerca di pace, tranquillità e semplicità». E adesso condivide «queste emozioni con altre persone alla scoperta di magici luoghi», così vicini per geografia ma così lontani nell’immaginario quotidiano. «Siamo sempre accolti con gioia dagli abitanti – assicura Alì – e dormiamo nelle tipiche kasbah di mattoni».

Come una liturgia che si ripete ma non stanca, il viaggio di Alì si conclude a Marrakech per un’ultima serata nella città. Qui le vie dei mercati sono le tipiche vie dei suk delle città arabe. Lo stesso incessante mormorio, le stesse bottegucce poste l’una di fianco all’altra, lo stesso odore di cibo cotto e di spezie, lo stesso lento procedere dei compratori e dei curiosi che faticano a farsi largo. Ogni strada e ogni vicolo ha la sua specialità e raduna la gente di un solo mestiere: qui i tessitori mentre dal retrobottega si scorgono le spole correre sul telaio, là i ciabattini che battono i loro piedi sul ferro, più lontano i sellai che fanno andare la lesina e i falegnami che torniscono i piedi degli sgabelli.

Se il Marocco fosse un libro dovrebbe saper raccontare il volto sfuggente di un paese che, con la sua luce abbagliante, si offre all’osservatore sempre di sbieco. Dovrebbe essere un libro nelle cui pagine accomodarsi come nelle stanze più intime di una casa. Dovrebbe essere un’opera inesauribile, capace di mischiare i generi fino a stordire il lettore, il visitatore, il viaggiatore attento che sceglie di visitare la Valle delle Rose con la consapevolezza che arriva dal cuore e dalla testa. Prima di partire consigliamo una lettura, quella dell’autore Tahar Ben Jelloun. Grazie a lui il Marocco è un libro. “Marocco, romanzo”, pubblicato da Einaudi nel 2010, è il diario di un delicato viaggio sentimentale.