Otto, abisso di Castel del Monte (11/03/2025 - 15/03/2025)
Storia e mare di Puglia

Dal primo risvolto di “Otto – L’abisso di Castel del Monte”: cosa nasconde il sottosuolo di Castel del Monte, l’enigmatico maniero di Federico II, da otto secoli abbarbicato su una collina solitaria nel cuore delle Murge? La notte del 17 luglio 1994 tutto il mondo è davanti al televisore per seguire la finale del campionato mondiale di calcio tra Italia e Brasile, quando Paolo Manfrè, giovane geologo dell’Università di Bari, l’amico fraterno Mauro Petruzzelli, il geofisico americano Robert Trimble e l’archeologa salentina Alessandra Bianco, decidono di esplorare il sottosuolo del castello. Ciò che troveranno sconvolgerà per sempre le loro vite. I protagonisti si muoveranno al confine della conoscenza, districandosi tra antichi codici rinascimentali e sedute di ipnosi regressiva fra Parigi, Chartres e la Puglia al centro di interessi occulti. Dal primo risvolto di copertina si intuiscono, da subito, gli ambiti spazio-temporali in cui si muove il romanzo: cosa nasconde il sottosuolo di Castel del Monte, l’enigmatico maniero di Federico II da quasi otto secoli abbarbicato su una collina solitaria nel cuore delle Murge? In realtà, dietro la trama del romanzo, abilmente sviluppata nell’alveo del genere avventura-thriller, si nasconde un sottotesto filosofico, storico e scientifico che mira a far riflettere sul rapporto antinomico fra scienza e fede, reale e immaginario, storia e mito. Sul confine di ogni ricerca che aspira a varcare le soglie dell’ignoto, sia esso scientifico, religioso o umano. Quel confine che ha come simboli immortali le Colonne d’Ercole dell’Ulisse di Dante, la Pathmos – il promontorio d’onde si vedono le tenebre – di Victor Hugo, l’onniscienza del Faust di Goethe, la linea d’ombra – “quella che ci avverte di dover lasciare alle spalle le ragioni della prima gioventù” – di Joseph Conrad. E quale fabbrica più esemplare è in grado di sprigionare quella eterna dialettica filosofica, ancor prima che storica e antropologica, tra visioni razionalistiche o agnostiche e visioni fideistiche, o consentire l’ispirazione di una ricerca che si spinge ai confini della conoscenza, se non Castel del Monte, ormai da anni al centro di dibattiti sempre più accesi fra addetti ai lavori e semplici appassionati?

Quel castello è in grado ancora di parlarci, dopo quasi otto secoli, dall’alto di una collina. E lo fa con un linguaggio necessariamente simbolico che va oltre il sensibile, che tocca nel profondo sino a sfiorare gli abissi della mente umana. E allora, ogni racconto su Castel del Monte non può che non essere anche il racconto di un mito, ma non inteso nel senso di favola o leggenda utile a incantare o svagare le genti, bensì racconto di una storia sacra che serve a “soddisfare profondi bisogni religiosi, esigenze morali…un ingrediente vitale della civiltà umana”, per usare le parole di Bronislaw Malinowski (antropologo e studioso illustre del XX secolo). Il pregio del romanzo di De Giovanni è di riportare l’attenzione sul valore catartico, unificante, assolutamente fondante che i miti possono avere per costruire l’identità di un territorio. Un territorio, come quello della nuova e antica provincia pugliese, che ha bisogno di trovare un tesoro in cui credere, un bene superiore più grande di ogni piccolo e fazioso campanilismo, un qualcosa che possa gettare le basi per lo sviluppo di ogni persona che vi ci abita e vi lavora. Il grande passato di questa terra, la sua storia, possono aiutare a trovare un senso comune, una visione e una luce in cui riporre ragionevolmente una speranza. Ed ecco, che nel romanzo emergono prepotentemente e mai banalmente i riferimenti a Castel del Monte, a Federico II, alla Vergine dello Sterpeto, al Castello di Barletta, alla Giudecca di Trani, al sottosuolo delle Murge, alle sue immense cavità ancora da esplorare, all’acqua e alle sorgenti sotterranee, archetipi fondanti dei culti primigeni di ogni civiltà, il tutto sullo sfondo di un plot narrativo denso di pathos e suspense e di riferimenti storici reali acutamente approfonditi. Il rischio di perdersi attorno a un mito resta, però, sempre alto. Il pericolo di addormentarsi, di abbandonarsi a sogni che possano generare mostri va scongiurato appellandosi, quando necessario, alle nostre più nobili facoltà intellettive. Come ci insegna l’etica classica, la virtù sta sempre nel mezzo e non c’è numero più equilibrato e armonioso dell’8. Così, solo alla fine del romanzo, si comprende l’intera portata dell’operazione culturale: un numero che trascende il tempo e lo spazio, che appartiene alle tradizioni indiane millenarie come a quelle pitagoriche ed elleniche, all’antica cosmogonia egizia così come a quella de I Ching cinesi o alla filosofia buddista, e ancora alle dottrine cristiane, giudaiche e musulmane e che scopriamo, infine, essere armonicamente presente negli ambiti più disparati dello scibile: dalla musica, alla fisica nucleare, dalla chimica, all’astronomia, con strane e incredibili coincidenze. Un numero, l’8, che da sempre viene riconosciuto come mediatore fra il trascendente e l’immanente, una porta per accedere a mondi superiori, siano essi fisici o psichici.